i libri di

NA

TONGA e SAMOA
(Oceania Centrale)
zoom copertina
Biblioteca Illustrata dei viaggi intorno al mondo per terra e per mare
Editrice Sonzogno – Milano
32 pagine (ed.1899)

LA DIVISIONE DELL’OCEANIA

I

Dal circolo polare artico al circolo polare antartico si stende il grande Oceano, le cui acque toccano le coste dell’Australia, dell’Asia, delle due Americhe, bagnando numerosi atolli, arcipelaghi madreporici, continenti: India, Indocina, Siberia, Stati Uniti, Messico, Perù, Argentina.
Nel progresso continuo della civiltà, rivaleggiando di slancio commerciale, queste terre e queste isole, le une, addentellate, le altre avviluppate dalle acque dell’immenso Pacifico, presero in questi ultimi tempi un grandissimo sviluppo. L’Australia, che all’epoca del primo viaggio di Cook era abitata soltanto da selvaggi miserabili, è ora, per l’importanza delle sue importazioni ed esportazioni, non solo la concorrente vittoriosa dell’Inghilterra, sua antica metropoli, sui mercati dell’oro e delle lane, ma una vera parte del mondo, non meno prospera e potente delle altre. La Nuova Zelanda, la cui ricchezza aumenta sempre più, è già considerata come una seconda Granbretagna. La Nuova Guinea prende lo stesso slancio; tutta la Malesia s’è trasformata in sorgente di produzioni diverse; la Melanesia obbedisce al medesimo impulso; e, se la Micronesia, la Polinesia sono meno favorite, subiscono nondimeno a gradi differenti l’azione generale emanante dagli Stati d’Europa, nella loro espansione coloniale.
Nel secolo XX, la divisione, fra questi Stati, dei gruppi insulari del Pacifico sarà definitivamente regolata, e la condizione sociale delle popolazioni indigene oceaniche sarà avvantaggiata, in proporzioni facili a prevedere, da tale rimaneggiamento politico della carta su questo punto del globo.
Il vero scopritore di questo mare fu Cook. Egli cercava, su falsi dati cosmografici, una penisola australe che non esisteva e ch’egli credeva corrispondere sulla sfera terrestre alla penisola dell’Africa e a quella dell’America meridionale, formando un prolungamento dell’Indocina verso il polo Sud; approdò invece sulle spiaggie fin allora sconosciute alle quali diede il nome di Nuova Olanda, poi riportò più precise indicazioni di parecchie isole del grande Oceano. Le sue relazioni entusiasmarono i suoi contemporanei. Si era ancora, a quell’epoca, in piena effervescenza delle impressioni provocate dalla lettura delle opere di Rousseau, specialmente per le sue teorie sullo stato di natura.
Il problema dagli avversari considerato come chimerico, mancava d’una soluzione basata sulle prove. Cook gliela diede facendo la seducente descrizione di Taiti, in realtà più seducente del sogno di Rousseau.
Quando Hawskesworth rese conto del viaggio di Cook, del mare del Sud si sapeva appena quanto ne avevano vagamente lasciato trasparire gli Olandesi e gli Spagnuoli, gelosi di conservare il segreto della colossale fortuna da essi trovata su quelle strade ignorate da altri navigatori. Da più di due secoli pertanto gli sguardi degli Europei erano rivolti alle acque del Pacifico. Il primo che le vide, Vasco Numez de Balboa, il 25 settembre 1513, conquistatore e non marinajo, giunto davanti a quell’Oceano, nell’uscire dalle foreste vergini di Darien, vi si gettò, con la spada e lo scudo alla mano, come un guerriero precipitantesi in una piazza forte, e prese possesso delle onde in nome del re di Castiglia e Léon. Gli restava a scoprire la via marittima per giungere dall’Europa fino ad esse. Fu l’opera di Magellano (Fernan Magelhaes), portoghese al servizio della Spagna. Il 20 novembre 1520, con cinque caravelle equipaggiate dal cardinale Ximenes, egli raggiunse la punta sud dell’America, superò lo stretto che conservò il nome di lui e si trovò nel Pacifico,
Il nome di mare Tranquillum che gli attribuirono i dotti non era appropriato che alla parte intertropicale, detta più tardi mare delle Signore dagli Spagnuoli.
Magellano attraversò il grande Oceano e fece la scoperta delle Ladroni (Marianne) e delle Filippine dove fu massacrato. La strada era tracciata. Altri vi si avventurarono successivamente, e si sa quale fu la parte delle diverse nazioni europee in questo movimento non interrotto delle spedizioni oceaniche dopo Magellano, per le quali neanche il più piccolo isolotto in quelle acque è sconosciuto.
Cook fu, nel secolo XVIII, il più intrepido, il più illustre fra i conquistatori del Pacifico, figlio di genitori poveri, lavorò dapprima a bordo d’un naviglio che trasportava carbone, poi entrò nella marina regia, istruendosi da solo, studiando Euclide, i geometri e i cosmografi, durante le lunghe notti invernali passate al largo, in vista della costa nord americana. A quarant’anni, il 26 aprile 1768, intraprese il suo primo viaggio compiuto l’11 giugno 1771, scoprì lo stretto fra le due isole della Nuova Zelanda e quello tra l’Australia e la Nuova Guinea.
Una seconda impresa, dal 13 luglio 1772 al 30 luglio 1775, gli permise di arrivare, sfidando i più gravi pericoli, fino al 71° di latitudine sud.
In un terzo viaggio (12 luglio 1776) aggiunse alla sue scoperte quella dello stretto di Behring e delle isole Sandwich (18 gennajo 1778); fu massacrato a Ohaiti (14 febbrajo 1779), in un combattimento contro i selvaggi.

La Polinesia, da lui percorsa attraverso gli scogli corallini a scopo scientifico, fu esplorata dopo lui, specialmente dalla Francia e dall’Inghilterra: la prima vi acquistò le isole delle Società, le isole Taumotu, le Marchesi; la seconda, la Nuova Zelanda, l’arcipelago Cook, le isole dell’Unione. Entrambe agognano ora alle isole Samoa e Tonga.

II

Secondo Dumont d’Urville, il gruppo di Samoa è lo stesso arcipelago che l’olandese Roggeween scopri nel 1722 e denominò isole Baumann; ma lo scopritore di diritto, se non di fatto, sarebbe il francese Bougainville, che approdò a quelle isole nel 1768 e le chiamò isole dei Navigatori, nome che conservarono a lungo sulle carte, dove poi si sostituì la denominazione indigena di Hamoa o Samoa.
La Pérouse, il cui piano comprenderà il riconoscimento di questo gruppo, vi approdò il 6 dicembre 1787; vi fece una sosta di dieci giorni e vi perdette i migliori de’ suoi compagni, che caddero nelle mani dei cannibali.
L’inglese Edwards visitò a sua volta la principale delle isole Samoa, di cui cambiò il nome. Vi fu poi, nel 1824, il viaggiatore russo Kotzebue, che diede nuovi particolari sull’arcipelago e ne calcolò la popolazione in 50 000 abitanti almeno.
Anche La Pérouse s’era presentato, verso la fine del 1787, nei paraggi di Tonga-Tabu, la metropoli dell’arcipelago Tonga, comprendente parecchi gruppi. Alcune di queste isole, tra l’altre Letonga, furono scoperte da Tasman nel 1643, altre da Cook nel 1774 e nel 1777, poi ritrovate da Maurelle nel 1781, più tardi da La Pérouse, da Bligh ed Edwards. Il 23 marzo 1793, d’Entrecausteaux ancorò a Tonga-Tabu.
Il capitano Wilson, che comandava il Duff, nave carica di missionari, vi apparve nell’aprile del 1797, ma non vi fece che un breve soggiorno, lasciando i missionari alla mercé di Dio e degli indigeni. Dopo quell’epoca, per una trentina d’anni, furono assai rare le visite all’arcipelago; coloro che vi si avventuravano erano massacrati. Le guerre civili, le uccisioni in massa vi si succedevano senza interruzione; i re erano tiranni, crudeli, e i capi ad essi soggetti versavano il sangue senza misura. Tali crudeltà esasperarono gli indigeni. Uno di essi, capo tributario d’una gran parte delle isole, deliberò di liberare l’arcipelago dal furioso Tugu-Aho, che lo governava. Il cospiratore, Tubo-Niuha, si associò il fratello Finau: essi sorpresero il re e lo uccisero. Fu il segnale d’una carneficina. Tutta la famiglia Tugu-Aho perì, meno un fanciullo di tre anni, figlio adottivo di Tubo-Niuha. Ma gli indigeni si sollevarono contro i vincitori, e il sangue corse ancora a fiumi. Finau però restò vincitore. Tugu-Aho non avendo lasciato eredi diretti, i suoi collaterali si disputarono il potere. L’isola fu divisa tra essi, ed ebbe venti tiranni, invece di uno solo. Quindi nuova guerra civile; prime vittime i missionari. Finau riuscì, dopo parecchi anni, ad arrogarsi il potere, ma allora cadde ammalato e morì, sebbene avesse sacrificato uno de’ suoi figli per propiziarsi gli dei! Gli succedette il figlio Finau II, che seppe pacificare l’arcipelago e favorirvi l’agricoltura. Poi si risvegliarono i dissensi, che durarono fino al 1810. 
Nel 1822, si stabilirono nelle isole Tonga parecchi missionari evangelisti inglesi, che riuscirono ad operare qualche conversione e furono poi favoriti da una insperata circostanza.
Nel 1827 l’Astrolabe, comandato da Dumont d’Urville, comparve a Tonga-Tabu: il capitano non voleva farvi che una semplice sosta per regolare i suoi orologi marini e procurarsi qualche provvigione. Invece, assalito da una violenta tempesta, la sua corvetta fu gettata contro uno scoglio; i lavori di raddobbo durarono parecchi mesi, e questo soggiorno forzato lo mise in grado di esplorare non solo l’isola stessa, ma anche le vicine.
Altri navigatori visitarono le isole Tonga in seguito. Nel 1830, il capitano inglese Waldegrave vi ancorò con lo Seringapatam, nave da guerra, e vi ebbe pacifiche relazioni cogli indigeni, che fino ad allora avevano sempre malamente accolto gli Europei.

III

L’arcipelago Tonga forma all’occidente il limite della Polinesia. A qualche distanza nell’ovest si trova il gruppo Viti, prima terra melanesiana. Le isole Viti appartengono agli Inglesi; l’isola Wallis, dove si fa scalo per la traversata dalle isola Samoa alle Tonga, è della Francia.
D’altra parte, le isole dei Pini, le isole della Lealtà, all’ovest delle Tonga, e l’arcipelago Tubuai, all’est, fanno parte dell’Oceania francese, mentre al sud gl’Inglesi occupano l’isola Kermadec e, posizione molto più importante, Auckland, la Nuova Zelanda settentrionale. Le due rivali hanno dunque dei punti d’osservazione, da dove possono guatare la preda agognata. Ora, mentre esse esercitavano attentamente questa sorveglianza, tra le due vigili s’introdusse la Germania, che conquistò con la sua supremazia commerciale ciò che le armi, la diplomazia o la politica non le permettevano di annettersi. Grazie ad un’ abile e costante tattica, sono i tedeschi quelli che presero stabilmente piede a Samoa. Le loro case di commercio vi posseggono la parte più fertile del paese, rappresentante un decimo della superficie dell’arcipelago; essi vi hanno monopolizzato il commercio delle noci di cocco, che è per Samoa ciò che il cotone e il grano sono per gli Stati Uniti; infine, i loro interessi vi superano d’assai quelli di tutte le altre nazioni.
E da notare che un valore, dal punto di vista economico, a queste isole oceaniche proviene dal fatto che esse forniscono molto coprah, il miglior carico dei navigli frequentanti codesti paraggi, e che inoltre le piantagioni si possono fare facilmente, avendosi sotto mano i lavoratori. Il commercio del coprah dà grossi profitti, ma può essere compromesso se il monopolio è intaccato. I Tedeschi lo sanno e non ignorano che, se un’altra nazione fuori della loro secondasse lo stabilirsi de’ suoi nazionali alle isole di Samoa per esempio, queste non offrirebbero più alla Germania commerciale quell’abbondante sorgente di prodotti che essa vi trova ora, poiché la concorrenza obbligherebbe a ribassare i prezzi della mercanzia. Di conseguenza, perdite che non potrebbero essere riparate che con lunghi sforzi. Per impedire codesta lotta, il miglior mezzo è quello di accaparrare il suolo, al che si mira con un attività di più in più tenace, e questa tenacità è incoraggiata dai meravigliosi redditi delle piantagioni. La Germania si preoccupa della sua espansione coloniale non meno che la Francia, ma la realizza in altro modo. Essa ha bisogno di colonie; la necessità le si impone ogni di più; solo essa mira a quelle in cui può ancora stabilire la sua preponderanza. Fuori dell’Africa, quelle che ancora offrono possibilità di qualche impresa, diretta o indiretta, senza conflitto con primi occupanti, sono gli arcipelaghi del Pacifico. Ed essa – come vedremo più innanzi – vi prende radice.

IV

La superficie totale dell’arcipelago di Samoa è valutata oggidì a 2787 Km. quadrati e la popolazione a 36 800 abitanti. Trecento stranieri, europei ed americani, vi sono stabiliti. Gl’indigeni, di razza polinesiana, professano, almeno nominalmente, il cristianesimo. Il governo, preteso amministrativo, fu, fino alla Conferenza di Berlino (1889) un protettorato bastardo, esercitato dal console di Germania e temperato dall’opposizione dei consoli americano e britannico.
Nel 1878, il re di Samoa, Malietoa, concluse con gli Stati Uniti un trattato d’amicizia e di commercio che cedeva agli americani il porto di Pongo-Pongo. L’anno dopo, trattati analoghi furono conclusi con la Germania e coll’Inghillerra; inoltre una convenzione dello stesso anno pose il distretto e la città di Apia sotto la tutela di una municipalità a capo della quale si trovavano i consoli delle tre potenze. Ma, anteriormente a queste diverse manipolazioni, il commercio dell’arcipelago era stato monopolizzato dalla Casa Godefroy, di Amburgo, che aveva stabilito nelle isole delle vaste piantagioni e delle fattorie. Questa casa, che aveva intrapreso su scala troppo vasta delle operazioni agricole di esito aleatorio e che era debitrice verso la banca Baring e Baring, fallì nel 1880; ma la continuazione dei suoi affari fu assunta dalla Società commerciale tedesca, costituita coll’ appoggio del governo imperiale. Tale era il modus vivendi nell’arcipelago, quando la Germania, nel 1884 concluse col re di Samoa un trattato che le garantiva la preponderanza politica. Questo atto provocò soltanto una protesta anodina del console britannico. Ma alcuni disordini interni fecero nascere delle ostilità fra i consoli d’Inghilterra e degli Stati Uniti: la sovranità fu rivendicata da due capi: il re Malietoa e il viceré Tamasese. Il primo di questi capi, benché riconosciuto unico sovrano dalla Germania, rifiutò di sottoscrivere a nuove esigenze, denunziò l’antico trattato e inalberò la bandiera americana. Nel settembre 1887, la squadra germanica operò uno sbarco mettendo a profitto le pretese violenze esercitate su sudditi germanici. Poco dopo, il nuovo protetto della Germania, Tamasese, ebbe per antagonista un terribile capo – Mataafa – che sconfisse le milizie del suo competitore ed inflisse gravi perdite alla marina imperiale. La Germania, i cui agenti, troppo zelanti, furono sconfessati, almeno pro-forma da Bismark, mandò dei rinforzi nelle acque dell’arcipelago, ma, nel marzo 1879, sopravvenne il terribile uragano che cagionò la perdita di tre navi della squadra. D’altra parte, gli Stati Uniti manifestavano un vivo malcontento per le pretese al protettorato esclusivo rivelate da atti patenti ed occulti degli agenti germanici, in queste circostanze difficili. Bismarck s’intenerì per Malietoa, il re deportato, che si sottomise all’imperatore germanico; di più propose alle potenze interessate di attribuire il governo degli affari di Samoa ad una conferenza che fu tenuta infatti a Berlino nel 1889. La soluzione decisa conteneva le seguenti stipulazioni: abbandono di Tamasese da parte della Germania; ritorno allo statu quo ante; un consiglio o ministero formato dai delegati delle tre potenze; diritto ad un porto o ad una stazione navale per ognuna di esse.
In questi ultimi mesi la Germania ha ottenuto dall’ Inghilterra la cessione totale della sovranità sull’arcipelago, estendendo per tal modo sempre più la sua influenza commerciale nell’Oceania. Non sarà inutile aggiungere qualche considerazione sulla politica coloniale della Germania.
Del resto, nell’attuale gara delle potenze europee per la spartizione dei paesi esotici, i Tedeschi sono – come già abbiamo osservato – i meno accaniti, e, salvo il pezzo che anch’essi reclamano nella divisione delle terre africane, non sembra che corrano dietro ad altre conquiste. Come quella di Samoa, anche la recente presa di possesso di Kian Cian non può essere considerata come una vera conquista di territorio, ma è piuttosto l’acquisto di un punto strategico e una porta aperta, al commercio tedesco nella Cina; anche essa, in realtà, fa parte di quel sistema di colonizzazione commerciale in cui i Tedeschi possono ben dirsi maestri.
I Tedeschi sono costretti a emigrare dal loro paese per il continuo aumento della popolazione; ma invece di mirare a conquiste di territori, essi non aspirano che ad una estensione commerciale; essi si spargono e si raggruppano un po’ dappertutto nel mondo, ma non partono, così, alla ventura, bensì con una meta precisa: sanno in quali regioni vanno, conoscono le difficoltà che ivi li aspettano, ma confidano nel proprio coraggio e sono certi di trovare dove vanno più largo campo alla loro energia; si raggruppano, si uniscono dando prova di una perfetta omogeneità e solidarietà, e accaparrano quasi tutto il commercio del paese in cui si sono stabiliti.
Queste colonie commerciali tedesche, impiantate in mezzo a popoli così diversi di razza, di usi e di costumi, si conservano tedesche sempre, o almeno per molto tempo; i coloni tedeschi si guardano bene dall’urtare in checchessia gli abitanti dei loro paesi d’adozione, vivono della vita sociale di questi ultimi, e un po’ alla volta riescono a farsi stimare e amare e ad acquistare sulla popolazione indigena una specie di supremazia morale. Nelle repubbliche dell’ America centrale, così spesso lacerate da lotte intestine, essi si tengono lontani dalle questioni politiche, e di quelle agitazioni non soffrono, perché, non prendendovi parte, godono della protezione che è loro dovuta come a sudditi esteri.
La genesi di queste colonie è quasi sempre la medesima; un tedesco, povero, ma sobrio, laborioso e prudente, è sbarcato un giorno in un paese qualsiasi; qui egli ha cercato la sua via, l’ha trovata, ha impiantato una minuscola azienda commerciale, ha esteso la cerchia dei suoi affari, ha stabilito delle succursali. Un po’ alla volta ha fatto venire dall’Europa altri suoi connazionali, parenti di solito, e così si è formata quella corrente che ha condotto alla formazione di una prospera colonia commerciale. Talvolta il primo pioniere, fatta fortuna, torna in patria, per esempio ad Amburgo, e qui rappresenta la sua Casa coloniale e le procura affari. Le aziende commerciali d’oltremare si fanno mandare merci dall’Europa, di solito dalla Germania, e le vendono, o le scambiano con prodotti locali, dei quali fanno attiva esportazione; in generale, fanno anche operazioni bancarie, trattano con gli agricoltori, e anticipando loro dei fondi, si assicurano per l’acquisto di interi raccolti.
Così nascono, crescono e si sviluppano queste colonie commerciali, veri rami della nazione tedesca germogliati su territorI stranieri.
Accanto a queste colonie commerciali si formano talvolta, però si può dire quasi eccezionalmente, delle colonie agricole, meno importanti ma pur degne di menzione, e queste e quelle si ajutano scambievolmente. Nel Guatemala, per esempio, vediamo dei Tedeschi stabiliti nelle città esercitarvi il commercio, mentre altri, nelle campagne, dirigono una gran parte delle piantagioni di caffè su terreni comperati, dissodati e lavorati con capitali tedeschi.
Nel 1896, su 521 000 quintali di caffè esportati dal Guatemala in Europa, 403 000 furono spediti ad Amburgo, e soli 16000 in Francia: parte dei 102 000, poi, che andarono in Inghilterra, fu mandata da esportatori tedeschi.
Per mezzo dei coloni, le industrie tedesche trovano sbocchi considerevoli, e vendono con profitto i loro prodotti, badando di adattarli ai gusti e ai bisogni dei paesi per i quali sono destinati. I porti della Germania sono diventati scali commerciali di grande importanza, e siccome, naturalmente, tutto questo movimento di scambi è fatto con navi tedesche, così si vede sventolare dappertutto la loro bandiera.
Così si fondano queste colonie di Tedeschi, semplicemente commerciali, senza territori da custodire, da proteggere o da difendere, senza complicati ingranaggi amministrativi, né impiegati, nè militari: colonie, insomma, che non richiedono nessuna spesa, che non danno nessun grattacapo e che rendono bene così ai coloni come alla madre patria.
Una quantità di siffatti stabilimenti si trova nel mare delle Antille e sulle coste occidentali dell’Atlantico. Gli emigranti tedeschi hanno lasciato da parte le isole inglesi, francesi, spagnuole e danesi, dirigendosi piuttosto su quelle costituite a repubbliche, e a Haiti sopratutto hanno accaparrato da gran tempo quasi tutto il commercio. Nel Venezuela predominano in parecchi dei principali porti, e Puerto Cabello può dirsi una colonia tedesca: le Case tedesche hanno nelle loro mani quasi tutto il commercio d’importazione ed esportano quattro quinti della produzione totale di caffè e cacao; solo a Campano il commercio è esercitato da coloni della Corsica. Nella Colombia, come nel Venezuela, si conta un’infinità di Case tedesche di fronte a una o due francesi. Nella repubblica di Costarica quasi tutte le banche e le case commerciali sono tedesche; così pure nel Nicaragua e nel Salvador; solo che in quest’ultima repubblica vi sono alcuni stabilimenti impiantati dalla grande Casa francese Haas, la quale fa veramente onore al commercio della Francia.
Uguale posizione occupano i Tedeschi nel Brasile e nell’Argentina; e così è quasi dappertutto: in tutti i paesi si trovano di questi gruppi di Tedeschi, i quali dominano il commercio delle regioni in cui si sono stabiliti; e le loro colonie, benchè strettamente legate ai paesi nei quali sono cresciute e hanno prosperato, tuttavia conservano per molto tempo intatta la loro nazionalità, il loro carattere e i loro sentimenti tedeschi.
Confrontando l’attività coloniale della Francia con quella della Germania, vediamo la prima affaticarsi a estendere le sue colonie, senza cercar di popolarne di Francesi, senza ricavarne nessun profitto commerciale, mentre la Germania, senza correre alla conquista di territori nuovi, copre il mondo de’ suoi coloni; la Francia si estenua in uno sforzo inutile: la Germania, senza sforzo, si arricchisce, e sotto apparenze più modeste ottiene risultati ben più proficui.
L’insegnamento che si ricava da questo confronto è che non basta fondar colonie; quel che più importa è di dare a queste colonie la vita con ogni sorta di imprese commerciali.


SAMOA E TONGA

I

Calofa! Calofa! Salute! Salute! L… ed io ci sporgiamo al disopra della rampa che corre tutto intorno alla passerella, e al disotto di noi, contro i fianchi della nave, vediamo due giovani samoane in piedi, dentro una minuscola piroga. Siccome arofa è un vecchio vocabolo haitiano che vuoi dire salute, che nelle Marchesi si dice cahoa, comprendiamo che calofa alle Samoa ha lo stesso significato e rispondiamo con la medesima parola, mentre esse, tutte ridenti, tendevano allegramente le mani verso noi tanto per domandarci il permesso di salire presso noi, quanto per invocare il nostro ajuto. Con un po’ di buona volontà da una parte e dall’altra, le nostre mani si unirono, ed esse, agili come gazzelle, in due colpi furono a bordo. Dalla passerella in cui eravamo L… ed io, lo spettacolo era certo curioso.
Era appena un quarto d’ora che avevamo gettato l’àncora nella graziosa e protonda baja di Pango-Pango, nell’ isola di Tutuila, una delle Samoa. Alte colline la circondano, e, dalla loro sommità fino alla riva del mare, alle acque tranquille e limpide come quelle d’un bel lago, è uno splendido mantello verde. A destra e a sinistra, qualche vuoto nel fogliame, e, in una cala che si apre, qualche piccolo villaggio mostra le capanne di bambù; mentre al fondo si schiude una bella e larga. vallata, all’ingresso della quale è il grande villaggio di Pango-Pango.
Il nostro arrivo fu causa di un movimento generale. Su tutti i punti della costa, vediamo gente correre, aggrupparsi, discorrere con animazione da tutte le parti, le piroghe sono messe in acqua, e vi si pigiano uomini, donne, fanciulli; ed ecco che a gran colpi di remi tutto converge verso noi, in mezzo a un crescente clamore di grida, risate, esclamazioni allegre, domande in tutti i toni e in tutti i metalli, dalle voci acute e stridenti dei fanciulli fino alle note rauche e gravi degli uomini. La folla si avvicina, s’incrocia, si urta, i remi battono l’acqua con frenesia e la fanno ricadere da ogni parte in una pioggia di perle scintillanti sotto i raggi del sole.
Vi sono grandi piroghe, nelle quali dodici o quindici uomini sono in piedi, mezzo nudi, remando in misura e facendo sotto lo sforzo volare l’imbarcazione come un uccello radente la tranquilla superficie del mare; altre piccolissime, facenti acqua da tutte le parti, e in esse si agitano cinque o sei ragazzi color cioccolata chiaro e nudi come vermi. Gli uni si sforzano di far avanzare remando con le mani, mentre altri cercano di gettar fuori l’acqua con scodellette di cocco. Un movimento troppo brusco, un’altra piroga che li tocchi, ed ecco i ragazzi in mare: si grida, si ride, si insolentisce, ma non si smette; si raddrizza la piroga e avanti.
Le imbarcazioni sono bene un centinajo; tutte si accostano che ne siamo circondati; non più grida, ma urli; tutti fanno a chi si aggrappa pel primo, non importa dove; le mani afferrano ciò che possono; i piedi si servono della più piccola sporgenza e, in un momento, il ponte è invaso da una folla chiassosa, agitata, bizzarra. Ciò che dapprima ci colpisce è la stranezza delle teste selvaggie sotto la varietà delle acconciature. Vi sono capigliature di tutte le gradazioni di tinta, dal nero di giavazzo fino al rosso più ardente, passando per i velli d’una bianchezza di neve sotto la calotta di calce che li ricopre e che ha per ufficio di farli passare dal nero al rosso, colore evidentemente di moda. Uno ha i capelli eretti e abbaruffati, un altro solo un ciuffo rosso che si drizza sul cucuzzolo; un altro ancora ha i capelli stretti in piccole treccie ricadenti attortigliate sulla fronte o sulle tempie; altri hanno una metà dei capelli tagliati corti e il resto lunghi. Nelle donne la stessa varietà di moda: per lo più, però, hanno chiome lunghe e, sulla fronte, un piccolo diadema di capelli tagliati corti e resi rossi con la calce.
I costumi sono semplici: una spessa cintura di lunghe erbe secche o un perizoma intorno alle reni. Alcune donne inoltre portano sul torso un vestito corto, a colori chiari, senza maniche e aperto sui lati. Infine, alcuni uomini, probabilmente per non essere del tutto nudi, si avvolgono maestosamente in una specie di grandi drappi bianchi. Il tipo non è brutto, massime nell’uomo; poco o niente tatuaggio, anche questo limitato alle gambe e alle coscie, che, coperte d’un disegno serrato e cupo, pajono vestite. La pelle è di color rame, o piuttosto cioccolata chiaro; uomini e donne hanno un portamento abbastanza fiero.
Dal ponte della nave l’invasione penetra al basso, e in ogni cantuccio si vedono grossi diavoli seminudi, trascinanti con sè le sagaje, gli archi, le freccie, le lancie, la clave. 
E nella contemplazione di questo spettacolo che avevamo avuto i calofa e le risate delle due samoane. 
Due fanciulle di sedici o diciassette anni, due sorelle evidentemente. Di taglia media e ben fatta, col volto dai tratti abbastanza fini e regolari, esse possono passare per belle: una con grandi occhi vivaci, burloni, e una bocca ridente; l’altra con labbra delicate e serie e begli occhi neri un po’ melanconici dentro un viso ovale un po’ magro.
Esse stanno davanti a noi, un po’ imbarazzate, tenendosi per mano.
– Io mi chiamo Samu-Samu, disse la ridanciona.
– Ed io Faasisilla, disse l’altra.
– Ecco la nostra casa, aggiunse una indicando sulla collina una casa isolata in mezzo al verde.
– E tutto è per voi quando ci verrete, conchiuse la compagna.
Promettemmo di approfittare, all’occasione, dell’ospitalità offertaci, e le due ragazze, scese a corsa le scale della passerella, si mischiarono alla folla.
Secondo le nostre informazioni e i diversi racconti fattici, a circa due ore da Pango-Pango doveva trovarsi la vasta baja in cui furono massacrati uno dei compagni di La Pérouse, il comandante de Langle, e una quindicina di marinai. L… ed io ci eravamo proposto di visitare quel punto. Dalle otto del mattino le nostre piccole samoane erano naturalmente salite a bordo con un carico di frutta d’ogni sorta per noi. Ebbimo l’idea di invitarle a servirci di guida per condurci alla baja Fanca, dove supponevamo fosse avvenuta la scena del massacro. Inutile dire che la proposta fu accettata con entusiasmo, e con la piroga giungemmo alla costa, senza che l’imbarcazione si capovolgesse, in grazia dei miracoli d’equilibrio da noi fatti.
Potemmo tosto convincerci che l’interno dell’isola corrisponde al panorama veduto dal molo. una vegetazione folta, potente, bellissima. Il caldo era abbastanza intenso, ma noi arrivammo attraverso una vòlta continua di verzura alla cresta che separa la baja di Pango-Pango da quella di Fanca.
Avevamo, nel passare, attraversato il villaggio di Pango-Pango; le capanne vi hanno una disposizione ingegnosa.
I palancati sono fatti con spesse stuoje di foglie di cocco, che sono imbricate le une sulle altre e si alzano a volontà; così di giorno le capanne sono aperte da una o più bande, dalla parte dell’ombra o della brezza, mentre durante la notte si lasciano cadere i tramezzi, che le chiudono ermeticamente. Riposiamo un momento prima di scendere a Fanca; le nostre samoane non hanno perduto tempo e, sul margine del sentiero sotto l’ombra, ci hanno preparato un lettuccio d’erbe e di foglie e, provviste d’una foglia di banano, ci fanno vento.
È mezzogiorno quando arriviamo al villaggio. In tale ora caldissima della giornata, tutto vi è silenzioso e deserto. Il sole getta sulla sabbia della spiaggia una luce abbagliante; lo scoglio di corallo si stende lontano allo scoperto, e le figure d’una quindicina di indiani, in atto di pescare, si delineano sull’orizzonte, nella trasparenza di una nebbiolina leggiera, che sale tremula e calda.
Nelle capanne le stuoje di cocco, volte verso il mare, sono rialzate; passando, non vediamo che corpi distesi, braccia agitanti scacciamosche o ventagli di pandano. Fuori, soli, dei porci grossi e piccoli attraversano il villaggio addormentato o si sdrajano beatamente, col ventre all’aria, nei buchi che si sono scavati.
Le nostre guide ci conducono presso il capo del villaggio, in una graziosa capanna, alla volta della quale è sospesa una grande piroga. A mezzo disteso sopra una stuoja sta, facendosi vento, un vecchio dalla barba rada e bianca, dall’ aspetto improntato di molta bontà e d’una certa dignità. Sua moglie ci porta tosto cocchi freschi, banani confettati e pesce bollito avvolto in foglie di banano. Assaggiammo per fare onore agli ospiti, mentre Faasisilla e Samu-Samu lasciavano il seguo nella colazione.
Quattro o cinque donne, una mezza dozzina di fanciulli e alcuni uomini si erano introdotti dietro a noi e, mangiando, le nostre guide non lesinavano di spiegazioni che tacevano convergere su noi tutti gli sguardi. Dopo un breve riposo, visitammo certi punti della baja che ci parvero corrispondere esattamente a quelli descritti nella relazione del massacro, e prima di partire, salutammo quel santuario di terra in cui alcuni francesi erano caduti, vittime oscure del dovere.
Verso le cinque di sera, mentre la nostra baleniera si accostava, da un lato, riconducendoci a bordo, una grande piroga a due alberi, con una quindicina di rematori, si avvicinava dall’altro. Il capo d’un villaggio all’ingresso della baja, veniva ad invitarci per la sera stessa a una siva, il che voleva dire che si sarebbe ballato e si prenderebbe, non il thè, ma l’inevitabile kawa, chiusura d’obbligo d’ogni ricevimento a modo. La stessa piroga a due alberi doveva venire a prenderci.
Alle nove, nulla ancora vedendo, incominciammo a trattare con poco rispetto il nostro samoano, allorquando la piroga comparve. Partimmo in cinque: la luna si levava appena, di tanto in tanto velata da grosse nubi nere, spinte dalla brezza.
Per navigare in misura, i nostri samoani intonarono una sorta di lugubre canto, dirigendosi verso un punto della costa nel quale non brillava alcun lume e tutto pareva deserto. Dopo circa venti minuti di navigazione lungo i banchi di corallo che le onde, frangendosi, coprivano d’una lunga linea argentea, l’imbarcazione si fermò sulla sabbia a circa cento metri dalla riva.
Raggiungiamo la spiaggia in groppa ad un selvaggio e, alla luce intermittente della luna, che contribuiva a dare al paesaggio una nota più macabra, vediamo, sotto grandi banani largamente distanziati, alcune capanne assolutamente nere.
Sulla spiaggia una ventina di indigeni ci ricevono in silenzio, alcuni avvolti come fantasmi, in larghi mantelli bianchi: nè donne, nè fanciulli. Ci dirigiamo verso le capanne, che restano sempre immerse nella più profonda oscurità e dove non pare affatto che sia preparata una festa notturna, sia pure selvaggia.
Ci si alza la porta d’una di esse, entriamo brancicando nel bujo, e, aspettando i lumi e il resto, ci serviamo delle nostre scatolette dì fiammiferi. Cominciamo in realtà ad annojarci e a trovare che i preliminari d’una tèsta samoana non sono affatto divertenti, almeno per gli invitati.
Dopo qualche minuto d’attesa, una vecchia donna tremolante, sdentata, vera testa di strega, fece lume portando alcuni fascetti di foglie secche, li gettò in un buco praticato ad hoc nel mezzo della capanna e vi si accoccolò vicino. Borbottando parole inintelligibili e senza degnarci d’uno sguardo, si mise in dovere, vestale di nuovo genere, di tener viva una fiamma che, tremolando, faceva ballare dietro a noi, fantasticamente, le nostre ombre. Un uomo, con complemento di illuminazione, portò una scodella di cocco, ripiena d’olio, nella quale bagnava un lucignolo che stentava a stare acceso. Di tanto in tanto, un indigeno s’ introduceva silenziosamente nella capanna e si metteva a sedere; uno di essi portava una specie di tamburo abbastanza primitivo, sul quale incominciò a battere leggermente, a guisa di preludio. Ci sentimmo un po’ sollevati: quel tamburo ci rassicurava.
Poco a poco, e sempre silenziosamente, la casa s’era popolata; si era lasciato vuoto un grande spazio, per il momento solo occupato dalla vecchia strega. Col mento nelle mani, essa fissava ostinatamente la fiamma che saliva, e sembrava ipnotizzarsi in quella contemplazione. Ad un tratto dieci o dodici selvaggi, aggruppati in un cantuccio, spalancarono smisuratamente la bocca e incominciarono a urlare in coro mentre l’uomo dal tamburo, battendo coi pugni sulla pelle dell’istrumento, cercava da solo di far più rumore degli altri. Sussultammo, scossi; la vecchia non battè ciglio: era la sinfonia.
Sei diavoloni seminudi, con indosso solo una cintura di foglie, fecero il loro ingresso con un salto, preceduti da un gobbo indemoniato, vestito dalla sua gobba o press’a poco. Armati di lance e di mazze, essi si abbandonarono per dieci minuti ad una danza da orso, urlando e squassando con fracasso le loro armi.
Dopo essi, una diecina di ragazze, dai quindici ai diciotto anni, vennero a sedersi in linea, le une a fianco delle altre. Incoronate di foglie, con collari di fiori rossi e bianchi cadenti sul loro seno nudo, con folte cinture intorno alle reni, le caviglie e i polsi egualmente carichi di fiori e di foglie intrecciate, esse gocciolavano d’olio di cocco profumato. Le loro danze non erano che una sequela di pose abbastanza graziose, ma durarono troppo, ed a poco a poco ci lasciammo prendere da sonnolenza, per la quale ci pareva di vedere un drappello d’idoli indu scesi dalle loro nicchie.
Allora l’orribile vecchia, la quale durante tutto questo tempo era rimasta immobile presso il fuoco, senza fare movimento che per gettarvi una manata di foglie a rischiarare le danzatrici, si alzò a sua volta, inoltrò nel cerchio vuoto e si mise a fare, fra le risate della folla, una specie di macabra parodia della danza delle ragazze, dando alla sua faccia incartapecorita, di vecchia mummia, le più grottesche e laide espressioni. Soffocando, uscimmo a respirar meglio.
La cerimonia del kawa chiuse la serata. Si portò una grande scodella di legno, e sei delle più giovani e leggiadre danzatrici le si sedettero intorno. Per una delicata attenzione del nostro ospite, toccava ad esse l’onore di preparare la bevanda. Ciascuna di esse prese un pezzetto di radice di kawa e si mise a masticarlo coscienziosamente; masticatala sufficientemente, la stemperò con una golata d’acqua e… sputò il tutto nel recipiente.
Facemmo, naturalmente, un gesto di sorpresa; ma ciascuna di esse continuando ad operare nello stesso modo, non potemmo credere che si trattasse d’una distrazione e aspettammo la fine. Quand’ebbero sufficientemente provvisto il recipiente, si aggiunse qualche litro d’acqua, si agitò e… ci si servì.
Allora il piccolo gobbo, che fungeva da gran maestro delle cerimonie, prese un’aria grave e, tuffando nel vaso una spugna in borra di cocco, ne spremette il succo in un guscio di cocco. Poi, rispettosamente, ne offrì a ciascuno di noi. Per quanto selvaggi fossimo diventati noi stessi per le nostre peregrinazioni attraverso l’Oceania, non lo eravamo ancora abbastanza per non provare un po’ di ripugnanza; ricevemmo la ciotola di legno con un sorriso che somigliava molto ad una smorfia e ci accontentammo di guardare il liquido che aveva odor di pepe. Nei villaggi più inciviliti si sostituisce una raspa ai denti delle signorine: c’e forse meno color locale, ma è più aggradevole, sebbene abbia udito affermare da alcuni amatori di kawa che la saliva sviluppa in questo nettare un profumo, un aroma che senza essa le manca.
L’indomani sera levammo l’àncora. Eravamo andati, il mattino, L… ed io, a fare provvigione di frutti freschi da Samu-Samu e Faasisilla. Fummo ricevuti dal padre, tappato in casa da un’enorme elefantiasi alle gambe. Allevato da missionari inglesi, egli fungeva nel villaggio da pastore protestante, insegnando a leggere e scrivere ai ragazzi di buona volontà. Egli ci mostrò con fierezza la Bibbia, l’eterna Bibbia dei paesi protestanti, tradotta in samoano, e un dizionario anglo-samoano, il tutto edito a Londra.
In gran numero le piroghe assistevano alla nostra partenza; L… era al suo posto sulla passerella; lo raggiunsi e gli mostrai le due piccole samoane che si affrettavano in una piroga e ci facevano un po’ di accompagnamento. Curiose, non è vero, le nostre piccole selvaggie ? L’elice battè il mare, in viaggio per altrove. Davanti Apia, nell’isola d’Upolu, sono all’àncora una dozzina di golette o di bricks, e da ogni parte vediamo issare la bandiera germanica. Dal molo, poco protetto, piccolo e ingombro di banchi, ci sembra essere davanti ad una piccola città relativamente importante, nella quale parecchie costruzioni in legno si confondono alle primitive baracche degli indigeni. Dietro la città, il suolo si rialza in dolce pendio fino al massiccio centrale dell’isola; il tutto ricoperto da uno strato uniforme di verzura, sul quale spiccano in verde più chiaro larghi spazi spianati, nei quali si veggono pascolare armenti e inalzarsi alcune case di coloni europei o americani.
Scesi a terra, si vede subito che Apia è meno considerevole di quanto sembra, scorgendola dalla rada. Vi si trovano magazzini in cui la droga è vicina al cotone, e il formaggio d’Olanda confonde il suo odore con quello dell’acqua di Colonia; taverne fregiate del nome di albergo, mentre, in graziosi giardini si elevano le dimore dei principali coloni inglesi, tedeschi o americani.
Dovunque, a queste costruzioni, si inframmettono le capanne indigene, il che contribuisce a dare alla piccola città un aspetto sufficientemente pittoresco. Nelle poche e brevi corse da me fatte nei dintorni, vidi belle strade in cui l’erba cresce vigorosa. Uno de’ miei migliori ricordi di Upolu è un bagno delizioso in un largo fiume, la cui acqua, limpida e fresca, scorre su un fondo di roccie e di ghiaja, tra due rive verdeggianti, fiancheggiate da begli alberi, i cui rami formano una vòlta elevata e leggiera sopra l’acqua. Inoltrando un po’ nell’ isola, si trovano immense foreste, rotte da profonde valli in cui cadono e scorrono mille cascate che vanno a perdersi in ruscelli sotto il fogliame. I villaggi vicini ad Apia non sono diversi da quelli di Pango-Pango. 
Facemmo un brevissimo soggiorno ad Apia e partimmo senza rammarico, trovando la città un po’ insipida. Cosmopolita e banale, è come tutte l’altre sue pari nelle isole di Samoa, Tonga e Viti, dove inglesi, tedeschi e americani hanno, con la Bibbia, importato le loro costruzioni, i loro magazzini, i loro stores, e dove si accumulano confusamente le più diverse mercanzie. Le vie soleggiate, polverose e calde, di giorno; oscure la sera. 

II

Il passo d’Ouvea, una delle Wallis, è molto stretto; una forte corrente porta contro i coralli; si può dire che ogni naviglio, impegnandosi, è per qualche momento in pericolo, e, perchè nessuno ne dubiti, si vede ancora sui banchi, a fior d’ acqua, la spoglia del Lhermite, un avviso da guerra sfasciatosi contro lo scoglio, una quindicina d’anni fa. L’arcipelago d’Ouvea o di Wallis si compone di parecchie piccole isole abbastanza basse, avviluppate in una stessa cerchia di banchi corallini, con baje e scali pure ingombri di scogli. La popolazione vi è abbastanza densa: circa cinquemila abitanti, tutti cattolici e sottomessi ai missionari francesi, che vi risiedono in numero di cinque o sei e sono i re dell’isola. Dopo il mio passaggio, morì la sovrana di quelle isole, e vi si installò un residente francese.
L’interno della grande isola Ouvea è disabitato; la popolazione si addensa sulle spiaggie marine, dove sorgono numerosi villaggi. Nell’interno trovansi tre o quattro piccoli laghi, dalle sponde paludose, ritrovo di anitre, di pivieri e di gallinelle. Belle strade in tutti i sensi percorrono l’isola come grandi viali in un parco verdeggiante. Sgraziatamente, l’acqua dolce manca o scarseggia, e bisogna raccogliere con cura l’acqua piovana. Le capanne degli indigeni sono a un dipresso come quelle delle Samoa, non differendo che per la disposizione dei fascetti di giunchi che formano i tramezzi e che s’incrociano, formando disegni geometrici.
Il tipo della popolazione è lo stesso di quello delle Samoa: poco diverso anche il costume, tranne che le ragazze lasciano generalmente crescere i capelli e li abbaruffano in modo che sembrano avere una testa enorme. Quando si maritano, tagliano quell’orribile ciuffo e portano allora i capelli come gli uomini, rilevati a spazzola e corti, scolorati in tutto o in parte dalla calce. Sicchè, alle volte, non si sa di che sesso è la persona che si ha davanti agli occhi.
La popolazione non ha il portamento fiero, l’atteggiamento dignitoso da noi riscontrato nelle Samoa e specialmente nel Tonga; ma ha l’aria alquanto indebolita, e ciò forse, senza voler fare della maldicenza, per la lunga abitudine di umiliarsi davanti alla “razza sacra”, come si fanno chiamare i missionari.
Ci sono ancora de’ bei giorni per la musica ad Ouvea, e noi potemmo godere parecchi concerti all’aria aperta. Uno d’essi ha più particolarmente colpito le mie orecchie. Un giorno P… ed io, dopo esserci bagnati alla spiaggia, seguivamo la strada in riva al mare, sparsa di fini detriti corallini e fiancheggiata da case disseminate a gruppi sotto la verzura, quando la nostra attenzione fu attratta da una dozzina d’indigeni accoccolati presso una capanna, quasi tutti con pezzi di bambù alti circa un metro e di diverso diametro.
Inoltrammo, malgrado lo sforzo di un branco di cani che, credendoci senza dubbio profani e incapaci di gustare le bellezze del concerto, cercavano senza successo di respingerci. Un vecchio dall’aspetto gioviale e con modi lusinghieri uscì dalla capanna, seguito dalla moglie, non, meno festosa e non meno obbligante; ci si offrì di entrare e di bere l’inevitabile kawa. Lo supplicammo di astenersi, facendogli comprendere che desideravamo soltanto udire la musica; allora, affrettandosi entrambi, ci accostarono un baule perchè ci servisse di sedia, rientrarono in casa e ne uscirono tosto, uno con delle sigarette, l’altra con un tizzone. Frattanto i nostri musicisti presero posto, ciascuno tenendo davanti a sè, verticalmente, il proprio grosso pezzo di bambù, mentre davanti all’artista di mezzo veniva messo sul suolo un fascetto di bambù più piccoli, più corti e di varia grandezza, avviluppati in una pelle ben distesa. Armato di due bacchette, l’indigeno si appresta a battere sopra quel tamburo di nuovo genere. Dato il segnale, le bocche si aprono per lasciar uscire i suoni più discordi, i bambù si alzano e ricadono sul suolo con rumore sonoro e soffocato ad un tempo, mentre le bacchette fanno il loro ufficio suscitando una tempesta di suoni striduli che ci fanno raggricciare. Le bocche beano, gli occhi fissi nuotano nell’ispirazione e nell’estasi, le vene del collo si gonfiano, e i grossi bambù salgono e scendono, e il frastuono indiavolato ci rompe i timpani.
Ci guardammo con angoscia, e, alla prima pausa, lanciammo con autorità e convinzione qualche “marié, marié, iva” (bravo, bravo, bene) d’obbligo, e fuggimmo, mentre dietro a noi quella musica atroce ricominciava alla più bella.

III

Da Ouvea in viaggio per l’arcipelago di Tonga, e in particolare per l’isola di Vavao. Malauguratamente, il cattivo tempo si mise di mezzo, e ci vollero sette giorni per fare centocinquanta leghe. Il settimo giorno ci ingolfammo in un dedalo di isole basse, passammo davanti al porto Refugio, piccola insenatura che sembra mediocremente meritare il suo nome, poiché vi scorgemmo, emergenti, i tre alberi d’un grosso naviglio tedesco perdutosi recentemente. Filammo davanti gli stabilimenti dei coloni inglesi o tedeschi, che, nel vederci, si affrettano a issare la bandiera, davanti a qualche villaggio tongano e andiamo ad ancorare dirimpetto al gran villaggio di Neifo, nell’isola di Vavao.
Era un tempo nuvoloso, freddo, triste; intorno alla rada vedemmo, sparse qua e là, le dimore in legno dei coloni, la dimora del re Giorgio, pure in legno, e la folla delle capanne indigene.
Vavao è poco elevata; nondimeno il suolo si innalza con lunghe ondulazioni coperte di verzura e di vegetazione; pel momento, alberi, case, capanne e colline, tutto aveva preso una tinta grigia uniforme dietro una spessa cortina di pioggia, di tanto in tanto infuriata. Un ciclone aveva devastato l’isola alcuni giorni prima del nostro arrivo, abbattendo alberi, rovinando piantagioni intere e rovesciando case.
Il villaggio di Neifo, abbastanza popolato, si stendeva in un vasto spazio di terreno in parte diboscato, ma nel quale crescevano ancora alberi di cocco, banani e altri alberi, con macchie di quelle gardenie i cui leggiadri fiori bianchi profumatissimi ornano i capelli delle Taitiane. Grandi e larghe strade, invase dall’erba, attraversano in tutti i sensi il villaggio, e questo è interamente circondato da una specie di palizzata. Il nome di villaggio o di città applicato a tutti questi aggruppamenti, più meno considerevoli, di abitazioni indiane è abbastanza inesatto, poiché dà l’idea di abitazioni più o meno serrate le une a fianco dalle altre in un allineamento che forma vie e viottoli. Là al contrario, ogni cosa è collocata secondo la fantasia del suo proprietario, senza alcun ordine, qua e la. 
Descrissi già, a proposito delle Samoa, il genere di capanne di tutti codesti gruppi d’isole; aggiungerò che nella loro costruzione non entra il più piccolo pezzo di ferro, neanche per riunire le diverse parti dell’armatura. Tutto è accomodato con delle corde in filo di cocco d’una solidità a tutta prova che sono disposte in modo di formare differenti disegni. Tutte le capanne sono, in generale, decenti all’esterno e all’interno. Il mobiglio somiglia molto a quello che abbiamo già visto: stuoje a terra; per il kawa nazionale, un gran piatto di legno a tre piedi e dal fondo di madreperla; ventagli di foglia intrecciata; della tapa, un cofano per i vestiti e il piccolo bambù, grosso come un braccio, montato su due piedi, sul quale il tongano appoggia la nuca quando si conca per dormire; dell’igname, del cocco in un angolo; delle striscie d’alburno maceranti nell’acqua e destinate alla fabbricazione della tapa, un piccolo specchio, qualche recipiente per l’acqua potabile e, nel mezzo di tutto ciò, qualche marmocchio nudo, con la testa rasa, trascinantesi con mani e piedi e ruzzolante sulle stuoje.
Dalla rada, e ancor più scendendo a terra, m’ero meravigliato d’un persistente rumore di martelli battenti senza posa e da tutte le parti, senza che vedessi uno solo degli infaticabili operai, e: dato il ciclone recente, supponevo che si lavorasse con ardore a ricostruire le capanne abbattute dalla bufera. Ora, da ogni abitazione davanti alla quale passavamo usciva lo stesso rumore, si fabbricava la tapa; si era alla fine della stagione in cui si raccoglie l’alburno destinato a tale fabbricazione e ciascuno si affrettava a fare la propria provvigione di stoffa.
Il tongano ha una meritata riputazione di ispirito battagliero e di fierezza: è un popolo di conquistatori che in altri tempi sottomise le Viti, e per essi un figiano o un negro è un essere di razza inferiore. E’ alla Tonga che vidi i più bei tipi mascolini della Polinesia: sono alti, ben, piantati, di pelle poco colorita con faccia d’un ovale un po’ allungato, il naso ardito, lungo e fine, la fronte spaziosa, ben limitata alle tempia, la bocca ben fatta, la barba generalmente tagliata a punta, gli occhi belli e animati da uno sguardo intelligente. È questo il tipo più frequente, ma, come da noi, si trovano alla Tonga tipi vari; quasi tutti i volti hanno una notevole aria d’intelligenza, di dignità e di maschia bellezza. Durante i tre giorni della nostra permanenza a Vavao, la pioggia continuò.
Due giorni dopo, eravamo davanti alla grande isola di Tonga, Tonga-Tabu, l’isola sacra, e davanti alla sua capitale, Mafuga.
Quattro o cinque brigantini erano ancorati nella baja irta di scogli; davanti a noi si stendeva una terra, bassa e piatta; di faccia vedevamo la chiesa e gli edifici della missione; intorno ai quali s’era aggruppato il piccolo villaggio cattolico. Un po’ sulla destra, e stendentesi abbastanza lontano, la città, con le sue case di legno smontabili, portate bell’e fatte dalla Nuova Zelanda o dall’Australia e tutte costruite sullo stesso piano; il palazzo (?) del re, pure in legno, più lontano, sopra un’altura, il tempio protestante, e a’ suoi piedi l’immenso villaggio tongano con le sue capanne sparse da ogni lato e tagliate da larghe vie parallele al mare o inoltrantisi nell’interno dell’ isola. 
Non alberi, né verzura, se non lontano, dietro il villaggio, dove si indovina una macchia inestricabile di vegetazione, Là ancora, il giorno del nostro arrivo, ebbimo pioggia; ma alle quattro un po’ d’azzurro si mostrò nel cielo e, aspettando la notte, ci recammo verso quella che ci pareva una piccola città. Lontano, era qualche cosa; vicino, quasi nulla; trovammo una ventina di case lungo la riva del mare e una dozzina d’altre disseminate qua e là, a uno o due piani e con un certo aspetto che parevano messe là provvisoriamente. Invece, dopo superata la piccola collina su cui si innalza il tempio protestante, vedemmo sparse da ogni parte le capanne tongane.
Avevamo incontrato, nella passeggiata, quattro o cinque signore inglesi o tedesche, messe all’ultima moda di Sydney o d’Auckland, e il cui costume stonava assai in quell’ambiente. Da un pezzo non avevamo veduto nulla di simile, poiché i rari europei o americani di Taiti hanno, in generale, vestiti semplici, in relazione col clima. Così ci fermammo per ammirare i larghi cappelli, con lunghe piume, le vesti attillate e i guanti a venti bottoni, con la stessa curiosità che, arrivando in Oceania, avevamo avuto pei costumi taitiani.
Quando passiamo davanti alla scuola, finiscono le lezioni, e dall’uscio scappa rumorosamente una fila di ragazzette tongane, dai dieci ai quattordici o quindici anni, che ci guardano senza timidezza e con atteggiamenti pieni di civetteria. Alcune, sul nostro passaggio, si scansano; altre si fermano; sorridendo, mostrandoci due belle file di denti bianchi e rispondono francamente aI nostro saluto; il ghiaccio è rotto; tutto un leggiadro gruppo ci circonda e ci lascia, ridacchiando, frugare nei libri e guardare i quaderni.
Esse indossano tutte lo stesso costume, il costume tongano: una veste stretta alla cintura e sulle spalle un corto indumento fatto semplicemente con un rettangolo di stoffa tagliato nel mezzo per farvi passare la testa e ricadente sul petto e sulla schiena; esso lascia così le braccia nude e permette di intravvedere le linee d’un busto generalmente irreprensibile. Tali vestiti sono di qualsiasi stoffa e di qualsiasi colore: di mussolina, di cotone, di seta, di velluto perfino; bianchi, rossi, turchini, verdi, policromi, ecc.
Esse se ne andavano, le più piccole correndo e giuocando, le più grandi a gruppi di due o tre, tenendosi allacciate ai fianchi. Altre, sole, camminavano seriamente, scrivendo ancora sulla loro tavoletta. V’erano tra loro superbe ragazze e graziose bambine. Visi tutti vivaci, intelligenti, aperti, con una cert’aria di piccola fierezza civettuola, e con i loro abiti, le loro forme, i grandi occhi espressivi, formavano un quadro originale e seducente. Esse si dispersero a poco a poco da ogni parte, con quell’andatura diritta, cadenzata, e con quell’ondeggiamento delLe anche ch’è proprio di tutte le donne della razza. E noi tornammo a bordo.
Cercammo, il domani, di fare una passeggiata verso l’interno dell’ isola, e seguimmo una grande e larga strada che pareva condurre in quella direzione. Malauguratamente, il suolo era molliccio per le pioggie precedenti e, dopo aver camminato nel piacicchio per circa una lega, ci decidemmo a tornare senza aver raggiunto alcun villaggio. Da ogni lato della strada correva un’inestricabile prunaja, al disopra della quale i vilucchi avevano gettato i loro lunghi gambi attortigliati e smaltati di corolle rosse o azzurre. Migliaja di cana gettavano fuori i loro rami d’ un verde tenero, tutti ricoperti di fiori d’un rosso brillante; i gruppi di banani oscillavano dolcemente con le grandi foglie delicate, lacerate dal vento della vigilia; in alto, le teste degli alberi del cocco frusciavano con le loro penne, e grandi piante dal cupo fogliame gettavano la loro ombra sui cespugli da cui si slanciava qualche liana venuta ad intrecciarsi ai loro primi rami.
Sulla nostra strada, incontrammo più di duecento indiani, che a gruppi tornavano verso il grande villaggio con i loro piccoli cavalli carichi di igname o di foglie tenere di banani, avviluppate con cura. I cavalli sono numerosi nell’isola e a buon mercato. Quasi tutti gli uomini ne conducevano uno o parecchi. Sembravano venire da lontano ed erano coperti di fango: siccome ci dissero che il villaggio più vicino era ancora abbastanza distante e che la strada dinanzi a noi era di più in più fangosa, tornammo verso la capitale, e vi rientrammo mentre ricominciava la pioggia; rifugiati sotto un albero, cercavamo una casa dall’aspetto ospitale; allorquando nel vano d’una porta apparve il leggiadro volto d’una giovinetta che rideva del nostro imbarazzo e ci chiamava con la mano.
Un bravo padre di famiglia era seduto sopra una stuoja, occupato a fabbricare le cordicelle in filo di cocco che servono per mille usi; aveva una testa abbastanza bella di vecchio e ci offerse graziosamente un posto sulla stuoja, in attesa che l’acquazzone finisse. Nella capanna erano con lui una donna sui cinquant’anni, due ragazzi dai sedici ai diciassette e una bambina da otto a dieci anni. Le giovinette erano assai belle entrambe, sebbene di tipo diversissimo. Una, la figlia del nostro ospite, di taglia media mirabilmente e gagliardamente costituita, con lunghi capelli neri inanellati, lineamenti regolari ed accentuati, grandi occhi neri dallo sguardo motteggiatore e altero ad un tempo, le labbra sensuali e sdegnose, la voce breve, il gesto un po’ brusco e un’aria di fierezza brontolona di ragazza viziata. L’altra della stessa taglia, era snella, senza essere magra, con spalle e braccia di grazioso modello, il viso un po’ lungo, ma fine, la bocca un po’ larga, ma con leggiadre labbra, dal sorriso intelligente e dolcemente serio: una testolina notevole per la finezza e la purezza delle linee. –
Dopo cinque minuti di conversazione abbastanza difficile tra gente che si capisce neanche a metà, e mentre la pioggia continuava a battere sulle larghe foglie dei banani, prendemmo una lavagna e facemmo i maestri di scuola. Fummo meravigliati: le piccole selvaggie incontrate per caso vi fanno una moltiplica senza inciampare; avevano una calligrafia ferma, corrente, quasi elegante; e, quando arrivammo alla geografia, ci mostrarono una carta e una geografia dell’Europa, in tongano, edite a Londra.
Parigi e Londra erano per esse le due capitali del mondo, e le due ragazze avevano idee abbastanza esatte su molte cose di cui non avremmo neppure creduto che sospettassero l’esistenza. Ci si offrì il kawa. La figlia del nostro ospite schiacciò la divina radice non coi denti, ma con una pietra, e preparò la bevanda. 
Di fuori, il diluvio continuava; e, avvicinandosi la sera, noi ci ritirammo; la casa del nostro ospite era al fondo del villaggio, sotto gli alberi di cocco, in mezzo ai banani. Grandi pozze d’acqua coprivano, qua, e là, la strada, che cedeva sotto i nostri piedi; le foglie delle piante facevano ufficio di grondaje. Le nostre graziose e allegre amiche, ci accompagnarono un momento, noi raggiungemmo la baleniera. Sotto la pioggia, il mare era d’un verde opaco, e ad un mezzo miglio di distanza, a metà velate dall’onda grondante si profilavano tristamente la silhouette e la massa del nostro Incrociatore. In codesti paesi di sole nulla è più triste e melanconico che la pioggia. 
La vigilia della nostra partenza dalle Tonga, i missionari ci condussero a bordo una cinquantina di tongani, che ci eseguirono alcune danze, con accompagnamento di bastonate e di urli.
Tutte codeste danze di guerra, tanto alle Tonga che altrove, ci sono generalmente parse insignificanti; somigliando molto a quelle che gli espositori d’orsi fanno loro eseguire: gridi, urli, salti, gesticolazioni, roteamenti d’occhi più o meno feroci, ecco tutto. Chi ne ha visto una le ha viste tutte, e chi non le ha viste ci perde poco, e può figurarsele facilmente.
Verso le dieci di sera, mentre a bordo i salti continuavano e finivano per affaticare più noi che i danzatori, passeggiando annojati sul ponte, uno di noi ebbe l’ idea di andar a vedere il villaggio tongano al chiaro di luna. In tre, con due indiani, saltammo in un guscio di noce e andammo a terra, dopo avere risicato venti volte di rovesciarci in mare: un deserto o, piuttosto una vasta necropoli, ciascuna casa prendendo un’aria di sepolcro. Al lume della luna, vediamo le capanne staccarsi in un nero cupo sul cielo stellato; talvolta passa attraverso le pareti di bambù un filo di luce o un rumor di voce, e noi erriamo a caso, inseguiti dagli abbaiamenti dei cani che si moltiplicano a misura che camminiamo, e bentosto in tutto il villaggio è una sequela di urli che fanno socchiudere gli usci, attraverso i quali si indovinano figure spaventate.
Raggiungevamo tranquillamente la riva allorquando udimmo cantare: volti a quella parte, notiamo che i canti escono da una capanna semiaperta, nell’interno della quale, alla incerta luce d’una lampada posata a terra, stanno sopra stuoje dieci o dodici uomini! I profili si disegnano vagamente e certe teste si perdono completamente nell’ombra. Senza cerimonie, introduciamo il capo attraverso la porta semiaperta: le voci taciono e Gou (il figlio del re) ci fa segno d’entrare. Ci stendiamo sulle stuoje, pregando che si facesse come se non fossimo là e di continuare i canti.
Uno di essi, dalla voce baritonale, dirigeva il coro, nel quale risuonava una superba voce di basso. Era, come tutti i canti polinesiani, una melopea lenta e grave in cui certe parole ritornavano regolarmente, qualche cosa di indefinibile che impressionava dolcemente, trasportando in una vaga e melanconica fantasticheria, a meno che non vi facesse addormentare.
Gou aveva viaggiato un po’, nella Nuova Zelanda e anche, credo, in Australia: egli ci parlò della Francia, dell’Inghilterra, con osservazioni per lo più giuste; aveva veduto rappresentare il Trovatore, non so più dove, a Melbourne o ad Auckland, e ne aveva conservato una profonda impressione. Si capiva che ad una notevole intelligenza egli univa un gran desiderio di sapere e comprendeva press’a poco la civiltà europea.
Sebbene figlio del re, non era l’erede del trono, questo non passando di padre in figlio, ma al fratello, alla linea collaterale, per tornare poi al figlio o ai suoi eredi.

IV

Il 2 settembre gettammo l’àncora nella rada di Levuka, nell’isola d’Obelau. Supponevamo che Levuka fosse la capitale delle Viti; invece da quattro giorni essa non lo era più, senza che insorgesse rivolta o sollevazione popolare: semplici, ma importanti interessi commerciali ne erano la causa; il centro del commercio si spostava e il governo gli teneva dietro.
La rada di Levuka è ben protetta da una cintura di scogli che circondano l’isola; due passaggi abbastanza angusti vi danno accesso. Sul quai, lungo circa un chilometro, si allineano le case e i magazzini dei coloni. Quasi tosto, dietro la città, sale in rapido pendio una linea di alte colline, a metà costa delle quali sorgono alcune abitazioni bianche che spiccano vivamente sul verde cupo dei boschi. In una piccola ansa, sulla sinistra, gli uffici abbandonati del governo, edifici in legno che si stanno demolendo per trasportarli a Souva, la nuova capitale.
Vista dalla rada, la piccola città offre un aspetto abbastanza piacevole, incorniciata da una linea di montagne poco alte, ma molto pittoresche, le quali, scendendo verso il mare, si aprono in numerose e fresche valli. La sera, con i suoi bars e i suoi magazzini illuminati, questa minuscola città aveva un’aria civettuola, e sui quais s’incontrava gente a spasso, signore inglesi, americane o tedesche, a meno che non fossero australiane, abbigliate con la massima correttezza ed eleganza, con vestiti bene stretti, bianchi o neri. Alcuni uomini camminavano lesti, col naso in aria, affaccendati; alcuni figiani seminudi erravano con noncuranza nelle vie; ragazzi dai capelli biondi o rossi, passeggiavano accompagnati da qualche serva indiana; si incontravano negri delle Nuove Ebridi o delle Salomone, ben diversi dai figiani pel colore della pelle, la loro taglia più piccola e le membra gracili. I magazzini erano come quelli che si veggono in tutte le città; un ammucchiamento d’ogni cosa più diversa, così come nelle strade si incontrano tipi di tutte le parti del mondo. Davanti ad un banco, una bionda e pallida inglese esaminava una stoffa, mentre, vicino ad essa, alcune nere figiane, con le spalle e le braccia nude, spiegavano qualche grama pezza di cotone dai colori chiassosi. In un bar due o tre gentlemen in maniche di camicia bevevano in piedi, mentre la bar maid, una giovane alta, d’un biondo rossastro, aspettava con aria distratta o annojata, appoggiata ad un gomito, con aria stanca, guardando fuori con occhi incerti. Il mare, venendo direttamente dal passaggio, batteva rumorosamente i quais; nella rada oscura si vedeva l’onda grossa correre e salire confusamente e, di tanto in tanto, mentre passeggiavamo lungo il margine del quai, un’ondata più forte ci gettava i suoi spruzzi in faccia; lontano si udiva il rumoreggiare sordo e continuo degli scogli a fior d’acqua. 
Il tipo figiano è assolutamente diverso dal tipo polinesiano: la pelle è nera, non color rame; il profilo è quello del negro, i capelli sono crespi e corti o abbaruffati, spesso arrossati con la calce. I Figiani sono generalmente ben piantati: il loro costume non è diverso da quello delle isole vicine: essi si mettono talvolta una piuma nera nei capelli e, apparentemente, non si trovano essi stessi abbastanza neri, poichè si anneriscono di più la faccia, non so con che cosa. Quasi tutti portano alla cintola o in mano un enorme coltellaccio. 
Souva, nella grande isola di Viti-Lebou, è una città che, a breve scadenza, avrà supplantato Levuka. Questa, oltre gli inconvenienti della sua rada, è troppo rinserrata dalla cerchia delle sue montagne; e infine, sopratutto, i grandi lavori di dissodamento e l’estensione della coltura della canna da zucchero nell’isola di Viti-Lebou richiedono uno sbocco particolare al commercio di quest’isola. Così quasi tutte le case di commercio vi si sono trasportate, non avendo più a Levuka che delle succursali; e il governo inglese ha seguito il movimento.
La rada di Souva è vasta e di facile accesso, ma l’uscita ne è difficile pei battelli a vela, data la direzione generale dei venti dominanti. Da ogni parte si dissoda, si tracciarono vie nelle alte erbe e nei boschi! Nella grande valle di Reva, bagnata da un vero fiume e trasformata in un immenso campo di canne da zucchero, è impiantata già da parecchi anni una magnifica raffineria. Il terreno su cui sorge Souva fu dato da una Compagnia di Melbourne alla quale appartiene la fabbrica di zucchero di Reva. E’ probabile che la generosità renda grandi profitti. 
Qual è l’avvenire della nascente colonia? Essa è abbandonata alle proprie risorse; è vero che parecchie compagnie sono molto ricche; ma, sette od otto anni fa grossi fallimenti avevano dato un duro colpo al commercio delle Viti. Il governo inglese offre la sicurezza e la stabilità; d’altra parte, il colono inglese è tenace; chi viene a stabilirsi qui non viene per fare fortuna rapidamente e ripartire; si è forti in tali condizioni; si deve riuscire, e si riesce. Ma mi sembra che in quel paese l’aria sia più pesante che altrove, i volti più duri e più inquieti: è l’aspra lotta per la vita, senza tregua, senza remissione.
L’allegrezza vi è più grossolana: risente il porter o il wisky.
Leviamo l’ancora domani, per tornare a Taiti, e la nave ha preso un’aria di festa; l’allegria è generale, poichè là, almeno, gli aranci profumano, i ruscelli cantano, le donne squillano risate argentine, e in tutti, esseri e cose, si legge come la gioia di vivere e d’essere.

Paolo Claverie 

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